mercoledì 10 maggio 2017

Mutatis mutandis

Silene vulgaris

C’era una volta una piccola tribù che viveva felice in una radura all’interno della foresta di Badde Linas. Adulti e fanciulli lavoravano e vivevano in letizia, e per onorare il loro grande re, ogni giorno danzavano per lui e gli preparavano deliziosi banchetti. Lui, un giovane galletto a cui piaceva adornarsi di penne e piume colorate (di cui i sudditi dovevano fornirgliene ogni giorno di nuove e sempre più belle), se ne stava sempre seduto sul trono, con un fido a destra, un fido a sinistra, e la spia seduto ai piedi. Era stato allievo dei più grandi sacerdoti della Terra conosciuta carpendone tutta la scienza della loro magia, e quando tornò fu subito evidente che era il più grande, il più forte e il più intelligente fra tutti loro e ne divenne il re, e chi non lo onorava o non si sottometteva (casi rarissimi, uno o due, se la memoria tramandata non inganna), veniva portato al limitare della foresta e lapidato.

Col suo governo il piccolo villaggio crebbe e il lavoro si fece più proficuo, tanto che le provviste si accumularono e non si seppe più dove conservarle. Il re dispose allora che si barattassero con le tribù vicine: segale e avena in cambio di argilla, carbone in cambio di pesce e tutto ciò di cui c’era abbondanza poteva essere scambiato con altro di utile e sempre doveva aggiungersi un omaggio al loro re.
S’intraprese un piccolo commercio e i sentieri che si dipartivano dal villaggio divennero via via sempre più battuti fino a divenire più simili a carreggiate, percorse ogni giorno dai barattanti a cui si aggiunsero turisti, lontani parenti, e semplici sfaccendati a cui piaceva curiosare. Gli scambi erano diventati così frequenti che i capi delle altre tribù cominciarono a pensare a un nuovo modo per commerciare, consorziandosi.
Ne parlarono ai loro villaggi e l’idea fu tanto bene accolta che decisero di inviare un messaggero al re della nostra tribù con la proposta. Lui ascoltò, poi fece tagliare la testa del malcapitato e la rimandò indietro, offeso dalla loro insolenza. Come potevano osare tanto? Solo lui poteva decidere se cambiare, come e quando.

Passò qualche luna, e il reuccio, che era tutt’altro che sciocco, pensò che i tempi stavano cambiando: i giovani della sua tribù, ben nutriti e istruiti, diventavano sempre più insoddisfatti e incerti, in quella che era diventata, a causa degli scambi commerciali, una società globalizzata e liquida. Bisognava ampliare il processo in atto, ridando certezze, e, perché no, adeguarsi.
Mandò i suoi fidi dagli altri capitribù con l’invito a un congresso, per concordare una soluzione. L’idea del consorzio non era da buttare, ma andava corretta, smussata, levigata e adattata.
Quando arrivarono, i capitribù trovarono il piccolo villaggio addobbato a festa e una grande costruzione era stata eretta nello spiazzo centrale: fatta di pietre sembrava un enorme vaso capovolto. Dentro vi era un sedile circolare con al centro un focolare e vassoi ricolmi di fiori e frutta. Ospitale e sorridente il re li fece accomodare e li invitò ad assaggiare ciò che veniva loro donato. Quando seduti, a un suo cenno, apparvero fanciulle addobbate di fiori e piume, portando ciotole ricolme di mirto, e guerrieri col viso coperto da terribili maschere, armati di asce e lance, si installarono dietro a ognuno di loro.
Parlò, il reuccio, e spiegò come e perché andava ridisegnata la loro proposta. Bisognava organizzarsi, distribuire compiti secondo le competenze d’ognuno: chi preposto al carbone e al legname, chi alla frutta e all’avena, chi sovrintendente ai baratti, chi ad occuparsi del traffico stradale. Ognuno, per la sua parte, poteva proporre migliorie ad ogni incontro dell’organismo, che andavano stabiliti anzitempo consultando la luna. Naturalmente ci voleva un posto stabile in cui riunirsi, e quale meglio di questo? E un capo, logicamente. Per dirimere eventuali controversie, controllare e programmare le attività, e sostenere le proposte migliori. Un capo che, democraticamente, sarebbe stato eletto da tutti loro assieme.
Stapelia variegata
La proposta del reuccio, così ben spiegata e le lance spianate, piacque molto agli altri capitribù, che applaudirono e osannarono la sua grande sapienza e quando votarono, Il re fu eletto all’unanimità. No, non proprio. Uno non lo fece e la lancia lo trafisse da parte a parte e l’ascia gli tagliò la testa. Ma non avrebbe contato nulla, uno solo.

Venne sera, tutti tornarono ai loro villaggi e il nostro, non più re perché secondo regolamento la carica non era compatibile con la nuova nomina, e l’aveva passata alla scimmia ammaestrata non valendo più nulla, dondolò soddisfatto sull’amaca, godendosi il rosso tramonto all’orizzonte. Passò uno stormo di aironi che seguì con lo sguardo, perdendosi l’avvicinarsi proprio in quell’attimo d’una grande nuvola che mandava bagliori bluastri.
Che fosse un’astronave da un mondo lontano? Chissà. Ma ci potete scommettere che, in quel caso, il nostro, diverrà imperatore dell’iperspazio.

ms 2017