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Silene vulgaris |
C’era una volta una piccola tribù che viveva felice in una
radura all’interno della foresta di Badde Linas. Adulti e fanciulli lavoravano
e vivevano in letizia, e per onorare il loro grande re, ogni giorno danzavano
per lui e gli preparavano deliziosi banchetti. Lui, un giovane galletto a cui
piaceva adornarsi di penne e piume colorate (di cui i sudditi dovevano
fornirgliene ogni giorno di nuove e sempre più belle), se ne stava sempre
seduto sul trono, con un fido a destra, un fido a sinistra, e la spia seduto ai
piedi. Era stato allievo dei più grandi sacerdoti della Terra conosciuta
carpendone tutta la scienza della loro magia, e quando tornò fu subito evidente
che era il più grande, il più forte e il più intelligente fra tutti loro e ne
divenne il re, e chi non lo onorava o non si sottometteva (casi rarissimi, uno
o due, se la memoria tramandata non inganna), veniva portato al limitare della
foresta e lapidato.
Col suo governo il piccolo villaggio crebbe e il lavoro si
fece più proficuo, tanto che le provviste si accumularono e non si seppe più
dove conservarle. Il re dispose allora che si barattassero con le tribù vicine:
segale e avena in cambio di argilla, carbone in cambio di pesce e tutto ciò di
cui c’era abbondanza poteva essere scambiato con altro di utile e sempre doveva
aggiungersi un omaggio al loro re.
S’intraprese un piccolo commercio e i sentieri che si
dipartivano dal villaggio divennero via via sempre più battuti fino a divenire
più simili a carreggiate, percorse ogni giorno dai barattanti a cui si aggiunsero
turisti, lontani parenti, e semplici sfaccendati a cui piaceva curiosare. Gli
scambi erano diventati così frequenti che i capi delle altre tribù cominciarono
a pensare a un nuovo modo per commerciare, consorziandosi.
Ne parlarono ai loro villaggi e l’idea fu tanto bene accolta
che decisero di inviare un messaggero al re della nostra tribù con la proposta.
Lui ascoltò, poi fece tagliare la testa del malcapitato e la rimandò indietro,
offeso dalla loro insolenza. Come potevano osare tanto? Solo lui poteva
decidere se cambiare, come e quando.
Passò qualche luna, e il reuccio, che era tutt’altro che
sciocco, pensò che i tempi stavano cambiando: i giovani della sua tribù, ben
nutriti e istruiti, diventavano sempre più insoddisfatti e incerti, in quella
che era diventata, a causa degli scambi commerciali, una società globalizzata e
liquida. Bisognava ampliare il processo in atto, ridando certezze, e, perché
no, adeguarsi.
Mandò i suoi fidi dagli altri capitribù con l’invito a un
congresso, per concordare una soluzione. L’idea del consorzio non era da
buttare, ma andava corretta, smussata, levigata e adattata.
Quando arrivarono, i capitribù trovarono il piccolo
villaggio addobbato a festa e una grande costruzione era stata eretta nello
spiazzo centrale: fatta di pietre sembrava un enorme vaso capovolto. Dentro vi
era un sedile circolare con al centro un focolare e vassoi ricolmi di fiori e
frutta. Ospitale e sorridente il re li fece accomodare e li invitò ad
assaggiare ciò che veniva loro donato. Quando seduti, a un suo cenno, apparvero
fanciulle addobbate di fiori e piume, portando ciotole ricolme di mirto, e guerrieri
col viso coperto da terribili maschere, armati di asce e lance, si installarono
dietro a ognuno di loro.
Parlò, il reuccio, e spiegò come e perché andava ridisegnata
la loro proposta. Bisognava organizzarsi, distribuire compiti secondo le
competenze d’ognuno: chi preposto al carbone e al legname, chi alla frutta e
all’avena, chi sovrintendente ai baratti, chi ad occuparsi del traffico
stradale. Ognuno, per la sua parte, poteva proporre migliorie ad ogni incontro
dell’organismo, che andavano stabiliti anzitempo consultando la luna. Naturalmente ci
voleva un posto stabile in cui riunirsi, e quale meglio di questo? E un capo,
logicamente. Per dirimere eventuali controversie, controllare e programmare le
attività, e sostenere le proposte migliori. Un capo che, democraticamente, sarebbe
stato eletto da tutti loro assieme.
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Stapelia variegata |
La proposta del reuccio, così ben spiegata e le lance
spianate, piacque molto agli altri capitribù, che applaudirono e osannarono la
sua grande sapienza e quando votarono, Il re fu eletto all’unanimità. No, non
proprio. Uno non lo fece e la lancia lo
trafisse da parte a parte e l’ascia gli tagliò la testa. Ma non avrebbe contato
nulla, uno solo.
Venne sera, tutti tornarono ai loro villaggi e il nostro,
non più re perché secondo regolamento la carica non era compatibile con la
nuova nomina, e l’aveva passata alla scimmia ammaestrata non valendo più nulla,
dondolò soddisfatto sull’amaca, godendosi il rosso tramonto all’orizzonte. Passò
uno stormo di aironi che seguì con lo sguardo, perdendosi l’avvicinarsi proprio
in quell’attimo d’una grande nuvola che mandava bagliori bluastri.
Che fosse un’astronave da un mondo lontano? Chissà. Ma ci
potete scommettere che, in quel caso, il nostro, diverrà imperatore dell’iperspazio.
ms 2017